Razionalizzare

Razionalizzare è una parola che, nella mia testa, ha risuonato a lutto per diversi mesi.

Significava dirigere la propria mente verso un campo di studi vasto come la sociologia habermasiana e parsonsiana, nel quale i diti al culo sono frequenti e le correzioni del professore senza appello.

Ma oggi che ho finito quel percorso di studi, oggi che faccio una vita simile benché diversa, fatti di più lavori uno sull’altro, di soldi miei, di risparmi, di stipendi precari deboli ma pur sempre stipendi, la parola razionalizzazione assume un altro significato.

Guardo alla mia psiche, come il lettore può guardare alla sua: quando ci sono dei problemi, gravi o lievi che siano, spesso si cerca di distrarsi canalizzando le proprie energie verso lidi più proficui dal punto di vista professionale.

Il lavoro, lo studio, i progetti, le passioni. Quando tutto va male, questi (e molti altri ambiti) sembrano fornirci le risposte giuste per reagire: non pensare ai problemi, hai da fare, coglione!

Ma spesso, anche se abbiamo molto da fare, c’è sempre un affanno. Occorre sempre fare i conti con sé stessi. A volte non basta: occorre farli nella maniera giusta.

Ed è così che la rabbia, l’impulsività, il rifiuto, la repulsione dell’altro, quel paraocchi che tende ad assegnare colpe a chi non ne ha (incluso te stesso), spariscono in una serata d’estate passata a riflettere su Carlo Giuliani e i crimini commessi a Genova dal nostro stato garante della sicurezza.

Mi accendo tre sigarette e bevo tre bicchieri di amaro sul balcone, dove mi raccolgo con i miei pensieri. Razionalizzo, capisco poche, semplici cose: devi saper accettare che di questo mondo non sei il demiurgo; che le cose cambiano; che gli altri cambiano, molto più velocemente ed imprevedibilmente di quanto tu possa immaginare.

E che tutto ciò non è una tua colpa.

Ho espiato. Il mio peccato l’ho pagato.

Ma adesso non ho più bisogno di ricoprirmi di una tunica, pesante, di allora. Ho bisogno di agire. Di lasciare andare la mia razionalità.

Questa sera mi sento più leggero. Anche se Carlo Giuliani è morto. Anche se tu non ci sei accanto a me, ma la tua macchina l’ho incontrata sul mio percorso. Anche se quelli che pensavo fossero amici, sono serpi in seno.

Questa sera ci sono io, l’amaro e le sigarette. Come Montalbano con il whiskey. Ordine e metodo, seguendo Poirot.

Sempre alla ricerca di sé stessi con la musica giusta.

Time passes

Il mio primo mese da disoccupato ufficiale procede fluido e armonioso come una scia kimika nel cielo: lavori occasionali, mal pagati a volte, altre volte ben pagati ma a rischio della libertà personale.

Vorrei tanto scrivere qualche pensiero profondo degno di essere condiviso su facebook o instagram, ma purtroppo non vendo sogni, ma vivo solide realtà.

Mi piacerebbe trasformare questo blog, utilizzato sinora solo come veicolo di personali prese a male, in un contenitore di pensieri sull’attività che faccio (o che farò ancora per poco) di giornalista dilettante, raccontare quel che vedo nelle mie giornate di lavoro di fine settimana, ma anche proporre riflessioni, pensieri, confronti e idee aperte a tutti sui temi più disparati.

Se c’è una cosa buona dell’era digitale è la possibilità di confrontarsi con tutti e di accrescere le proprie conoscenze e consapevolezze, ma bisogna pur esser pronti per un passaggio del genere.

A volte mi sento ancora insicuro nei confronti di me stesso, non riesco a impostare la modalità apparenza con cui tutti si relazionano nella vita reale.

Mi ritengo una persona troppo emotiva e so di non poter aprire bocca. Non mi sento in linea con i paradigmi delle persone che mi circondano, devo ripristinare la falsità.

Potranno volerci giorni, mesi o anni, il tempo passa come nei romanzi del flusso di coscienza. Si vivono anni che durano un attimo, per godersi giorni più intensi degli orgasmi.

So aspettare la fine dell’insicurezza e l’inizio del mondo dell’apparaneza, so stare anche in silenzio, non scriverò più.

 

 

E io ci sto

Mi rendo conto che, dopo diversi mesi, non riesco più a scrivere del mio dolore e del mio male, che a conti fatti erano gli azionisti di riferimento di questo blog.

Ma siccome sono per le S.P.A. e per il liberismo sintattico più sfacciato, l’ingresso di nuovi soci, di capitali freschi e l’abbattimento dei dazi sentimentali hanno convinto la società ad agire diversamente: basta dolore, proviamo ‘sta cazzo di felicità, se non fosse altro almeno per gli stakeholders che mi circondano e si prendono la briga di sopportarmi.

E andò che alla fine l’obiettivo è stato raggiunto, i risultati conseguiti con precisione – benché in ritardo rispetto all’iniziale progetto ma si sa, la burocrazia gli scioperi bla bla – le inquinanti endorfine fatte confluire nelle falde cerebrali e la nostra azienda è tornata ad essere leader nel settore della spensieratezza e delle facezie.

Non mi pesa essere disoccupato, di lavorare a nero e per pochi soldi, di avere poche speranze di realizzare i miei sogni – qualunque essi siano, riconosco di aver messo a bilancio poco quando dovevo condividere con voi aspettative reali – di aver subìto delle perdite importanti.

Alla fine la campagna di riparazione è andata bene, non solo per le persone che ho incontrato, ma soprattutto per le consapevolezze.

Mi ripeto sempre da un po’ di giorni che è bello potersi bastare. E’ una sensazione abbastanza stupefacente sapere che, al di là del dolore, della sfortuna, della colpa, del tradimento, del disgusto; ma anche del bello, della convivialità, dell’ingenuo cameratismo, dell’amicizia, della passione e dell’orgasmo; ecco, è bello sapere che al di là di tutto ciò ci sono io.

Me stesso, con i miei difetti, le mie esperienze, le mie rovine, la mia identità che mesi fa dicevo di non possedere.

Sarà un po’ strano capirlo a 27 anni invece che a 20 – magari se fossi andato al cantiere invece che all’università l’avrei capito prima – ma io ci sto con me stesso, io posso bastarmi, non ho bisogno di altro che di me.

E’ difficile spiegarlo con parole diverse da queste, ma anche saltando le onde io ci sto.

 

Rompicoglioni

Trovo sia molto blues essere triste e mai sulla cresta dell’onda.

C’è una pagina del libro che stavo leggendo e che ho finito stasera, che dice che alla gente piace rompere i coglioni. A sé stessi, principalmente, perché per esperienza, quando li ho rotti agli altri, sono stato sempre fermato per tempo. C’è a chi piace lamentarsi e rimanere attaccati ai problemi. Rodersi il fegato sino a dimenticare le cose belle della vita, che poi spesso si nascondono da sole perché son biricchine.

Poi va a finire che, non si per come, né perché, un paio di cose che avevi progettato vadano per il verso giusto – anche più velocemente del previsto – e che vedi il mondo in maniera diversa, tutt’a un tratto, senza manco bisogno dell’erba o del vino dei Poracci.

-Capita di farmi una passeggiata e vedere ancora i negozi che c’erano, a Centocelle, quando ero bambino, chiedermi come facciano a stare ancora lì, con i tempi che cambiano, domande futili, inutile se non ai fini di una sorta di estetica di quartiere.

-Succede che capisca perché odio la televisione, benché la faccia a livelli irriducibilmente regionali, ed ami il resto, leggendo un libro di Montalbano e provando a rivederlo nella trasposizione televisiva: ci sono cose che nel libro non ci sono, perché lo spettacolo ipnotizza, spettacolarizza, attrae, la lettura incanta, trasporta, fa volare la mente.

-Passando per Dachau, mi capita di non impressionarmi, bensì di essere tranquillo. Il male si presenta in tutta la sua banalità, non mi stupisce, non mi terrorizza. Lo ha già fatto a suo tempo. Mi scopro consapevole, so di sapere, ‘na volta tanto.

-Succedono queste e tante altre cose stupide e insignificanti che però sono accompagnate da un farfallìo allo stomaco che mi fa stare bene. Ascoltare la musica, parlare con le persone, leggere un libro, vedere una serie TV, conoscere qualcosa di nuovo, volgere lo sguardo al cielo, lasciarsi scivolare una stupidaggine addosso, passeggiare per il mio quartiere…

Endorfine.

Tutte cose stupide, ma che se non avessi saputo prendermi in mano, per la prima volta da almeno un anno e mezzo, mi avrebbero portato giù dove non si vede più.

Domani mi laureo, guardo verso il cielo e ho smesso di rompermi i coglioni da solo

 

Tempo di passaggi

Mi tocca scavalcare uno steccato e non c’ho l’olio cuore, adesso come faccio?

M’ero affidato agli oppiacei ma mi sono ritrovato a strisciarci sotto, allo steccato, e quindi che faccio? Mi faccio steccare? Ma è tecnicamente possibile farsi bocciare alla proclamazione della laurea specialistica senza tirarsi fuori la cappella? Sa, professore, vorrei evitare ma non mi va di passare.

Credo non sia possibile rimanere laureandi a vita, mica stamo a scuola, e sono sincero neanche mi piacerebbe restarci però…

Io adesso, dopo mesi di blu, profondo blu, voglio tornare a vivere, voglio solo rinascere dopo aver affrontato il periodo più difficile della mia vita.

Pochi soldi, tanti problemi, studio matto e disperatissimo per nove ore al giorno per sei mesi continuativi, precariato d’avanguardia al servizio di una passione e di un padrone, lavoro il week end, lunedì senza emozioni, poche vacanze, nessun giorno libero, mente sempre attiva, dopamina silenziata, tanti amici, tanta solitudine privata.

Questi sono stati i miei ultimi sei mesi, i miei orrendi, proficui ultimi sei mesi.

Ma mi consolo pensando che sono tempi di passaggio, come recita il titolo esoterico di un’opera che ho inserito a cazzo nella mia biografia.

Tempi di passaggio caratterizzati da sensazioni orrende, da domande esiziali.

“Ce la farò?” “Si, ce la farò, mica ‘so cojone!”

“Ok, ma una volta che ce l’hai fatta, che farai? A cosa ti serve quel per cui hai studiato? A cosa ti serve la tua esperienza nel precariato? Potrai fare mai quel che ti piace?”

“Cosa ti piace? Dimmi, chi sei?”

Nel profondo blu in cui sono immerso io già penso alla risalita, penso a quanto sarà dura e difficile, e stavolta non mi nascondo dietro le frasi fatte.

Io ho paura di non farcela, ho solo paura di vedermi crollare tutto dinnanzi come spesso è successo negli ultimi anni.

Mi sento schiacciare dal peso delle consapevolezze e delle insicurezze e so di doverle affrontare da solo. Da una parte ne sono felice per ovvi motivi, dall’altra sento il vuoto.

So anche che avrei voluto te, persona spietata, accanto a me per affrontare meglio queste consapevolezze. Con la sicurezza che se anche le cose andassero male, avrei avuto la tua mano intrecciata alla mia; che se anche le notti fossero buie e orribili, avremmo potuto dormire insieme.

Dormire insieme e risvegliarci quando i tempi di passaggio sono finiti.

Il mio dolore nell’affrontare i tempi d passaggio è rappresentato da un filo che devo recidere: tagliare il legame, anche affettivo, con quel che mi ha buttato qui giù, dove non vedo più.

Ma anche se ti sei dimostrata quel che mai avrei pensato, io avrei voluto che ci fossi tu qui accanto a me a vivere i tempi di passaggio.

E avrei tanto voluto che ci fossi tu qui accanto a me a vedermi crescere così tanto in così poco tempo.

E avrei tanto voluto che ci fossi tu qui a raccogliere quel che avevamo seminato con pazienza contro tutte le difficoltà possibili.

E avrei tanto voluto che ci fossi tu qui a prenderti l’onere di qualcosa, invece di scappare via, buttarmi come un cencio vecchio, disfarsi di me nel giro di pochi giorni.

E nonostante tutto ciò non avrei mai voluto farti andare via, ma adesso devo farlo e devo dirlo a me stesso.

Va via, vattene via perché sei la mia più bella cosa mai successa.

Va via, vattene via, perché non hai voluto affrontare quei piccoli ma così lunghi tempi di passaggio.

Va via – fai in modo che io riesca a mandarti via – perché l’amore è condivisione e questo non è amore, ma dolore.

 

Neo pregiudizismo

È proprio vero, la politica ti dà alla testa.

Ogni giorno che passa ringrazio iddio Battiato per avermi fatto sviluppare quel «mio razzismo che non mi fa guardare quei programmi demenziali con tribune elettorali», dove idioti di destra vomitano corbellerie e falsità sul ddl Cirinnà o altre (poche) cose molto belle che il pensiero progressista è riuscito, finalmente, a inculcare nell capoccia dei cittadini; mentre apologeti di presunta sinistra giustificano il buon operato di un governo che neanche io che ho votato ho effettivamente votato, visto che volevo Bersani.

Ma è pur vero che la politica non sta solo nei talk show e nei parlamenti. Essa si annida in ogni poro della società, un po’ come quei fastidiosi acari che ti spingevano, per disperazione o per slogan, a piegarti al diktat dei magici panni catturapolvere.

E se è vero che davvero siamo nati democristiani, sono pur certo che non vi morirò, io! Ben altra cosa però è sperare che non lo muoiano gli altri: non puoi metterti contro un paio di millenni di chiesa e catechesi, sarebbe utopistico.

Ed il conservatorismo così si rivela un fenomeno davvero difficile da estirpare, un compito improbo anche per un immaginario ‘Folletto’ aspira-ideologie. In fin dei conti, alla gente piace essere conservatori a tal punto da declinarlo in ogni aspetto quotidiano della propria vita.

Ma qui ci muoviamo a livelli più profondi delle occhiaie di un raverino appena uscito da una festa nel bosco. Il conservatorismo è nell’anima, è modus vivendi prima ancora che idea regolatrice della società, idea talmente radicata nell’animo umano da accompagnare tutte le rappresentazioni espressive di un essere umano.

E quando si radica così profondamente riflette una fame di pregiudizi simile a quella che ti viene dopo aver fumato un cannone di buona erba di Amsterdam. Si può dire che il conservatorsimo è la declinazione politica del pregiudizio, e che a sua volta il pregiudizismo (chiamamolo così va, visto che è il giorno del neologismo petaloso me concedo sta licenza!) sia la base di ogni valutazione possibile sullo scibile umano.

Ed andò che, dopo sei mesi di lavoro matto e disperatissimo, condito da approfondite ripetizioni in materia, conclusi la mia tesi magistrale in Etica della Comunicazione e che mi approcci così alla sessione di laurea.

Consegno tutto al professore, mi richiama una settimana dopo e mi dice “Ah, ho notato che lo stile di scrittura è cambiato rispetto alle prime cose che mi ha portato! Mi dica un po’, ma l’ha scritto davvero lei? Sicuro che non si è fatto aiutare?”.

L’autorità con cui sto lavorando (e che mi lascia una totale libertà col suo menefreghismo) si è finalmente interessata a me per esser certo che non avessi copiato, solo perché le prime pagine che gli portai non le piacevano.

Mi ha costretto anche a riscrivere davanti a lui una parte della tesi, a mano, per verificare se fossi davvero io l’autore del ‘nostro’ lavoro; una prova brillantemente superata, dal momento che sono effettivamente io l’autore del mio lavoro, ma guarda!

È stata un’amara scoperta il ritrovamento del pregiudizismo nei miei analoghi scavi nel profondo della mente umana. Sapere che il vecchio adagio “chi nasce tondo nun po’ morì quadrato” resiste anche a fronte dell’impegno atto a smussare i propri difetti e a migliorarsi tramite il lavoro ha avuto un duplice effetto.

Da una parte, mi ha reso forse definitivamente pessimista sulla possibilità di capirsi con gli altri in generali. Fra ego ed alter ci sarà sempre qualcosa che impedirà una pur adeguata comprensione reciproca, in questo caso è stato il pregiudizio, in altri, chissà?

Forse dovrei davvero fregarmene del giudizio degli altri e lasciarmi toccare solo quando ne va dei miei obbiettivi e del risultato.

D’altra parte però del risultato non mi interessa. Ero partito col presupposto di far un lavoro decente, credo di aver fatto infine un ottimo lavoro, ma non mi importa del voto finale.

Potrà darmi anche 0 punti all’esame, mi è bastato dimostrare a me stesso che posso farcela contro tutti e tutto. Ad eccezione del pregiudizio, che una volta riabilitato anche dalla filosofia sembra aver ipnotizzato il mondo con il suo fascino. Che sia in questo o in altri frangenti più importanti come la politica, oggi non ha grande importanza.

Quando c’era Berlinguer

E’ davvero signolare il fatto che stasera si giochi una giornata del campionato di calcio di Serie A e che io, teoricamente indirizzato per  via della maggior parte delle mie esperienze giornalistiche a fare un mestiere affine, non ne sia minimamente interessato.

Sarà che avevo un appuntamento, sarà che la Roma ha giocato ieri sera, vuoi per una questione di tempistiche e di una testa troppo impegnata a pensare, o magari perché non ho neanche Sky a casa e sarei dovuto andare da nonno a vedere la diretta goal, mi sono beatamente fregato di tutto ciò e sono tornato a casa.

Guardando la TV con mamma, ho messo Rai Storia: dovevo assolutamente approfittare dell’assenza dal piccolo schermo di Don Matteo e della coincidenza temporale che ci ha privato di vedere Insinna insieme!

Passano uno speciale su Berlinguer, mi commuovo e guardo spezzoni, filmati, discorsi di un personaggio che oggi non può più esistere in un mondo dominato dagli interessi, dalla ragione strumentale, da una socialità finta e abulica.

Sono rimasto affascinato da quell’espressione così cordiale, ma seria e rigorosa allo stesso tempo; da quella voce così chiara, limpida benché decisa; da quelle parole così dense di filosofia, significato e razionalità.

Non che fino ad oggi non lo conoscessi, piuttosto me ne scordo troppo spesso. Ho cominciato a pensare.

Ho pensato che quando c’era Berlinguer valeva la pena di parlare di politica per due ragioni: vi erano effettivamente delle ottime ragioni per convincere l’altro della bontà e della purezza delle proprie ragioni; altresì vi era un’idea che animava la ragione che non fosse solo l’interesse e la propria individualità.

Ho pensato che quando c’era Berlinguer forse l’Italia non era migliore e più ricca di oggi, ma forse davanti vi era la prospettiva di una giustizia reale anche a scapito di un benessere che forse, non era tanto good come pensavamo ma era più well, più materiale.

Credo che quando c’era Berlinguer la gente sapeva organizzarsi anche senza i fondi di un partito che li fa mobilitare; che sapesse sostenere cause anche senza una tastiera e uno schermo a far da megafono.

Molto probabilmente, quando c’era Berlinguer il nostro paese avrebbe potuto cambiare e prendere una direzione più giusta, più egualitaria benché non assistenteista; quasi sicuramente, ognuno avrebbe avuto quel che meritava, ossia che a tutte le facoltà dell’uomo sia dato libero sviluppo.

Sicuramente quando c’era Berlinguer non ci sarebbero state le paytv a proporti il calcio della Serie A in prima serata nel bel mezzo della settimana. Lo fanno siuramente per guadagnarci, ma anche per curare quell’alienazione che il PCI avrebbe voluto estirpare dall’uomo comune e che invece accompagna tutti i nostri risvegli. Compresi i lunedì e i giovedì mattina, quando parliamo di calcio con i colleghi.

Dolore

Sto male perché metto fretta al tempo dopo avern perso.

E’ stupido e lo so, non ha senso; perder tempo è una colpa che mi sono già confessato, ma dopo la confessione viene spesso l’espiazione, a meno che tu non abbia tanti milioni per validi avvocati esperti in diritto tributario.

Io non c’ho più manco il sangue, ho sprecato tutto quel che potevo avere e a volte mi sento estremamente vuoto, privo di ogni legame con una mia possibile identità.

Mi hanno rubato il sorriso e la fiducia e credo che anche questo rientri nell’espiazione; mi sono perso ogni genere di stima e progetto in me stesso, se penso al “progetto gettato” di Heidegger mi sento gettato dentro al cesso.

Bel modo avrei di usare quella filosofia della quale mi danno tutti i giorni per averla scelta come compagna di vita. Non mi aiuta neanche quando sto male ad accettare e andare avanti, figuriamoci se potrà aiutarmi ad avere un lavoro serio!

Ieri stavo bene, l’altro ieri pure, ma oggi sto così male che non sento niente dentro. Voglio solo buttare fuori di me il rancore che provo verso me stesso; vorrei tornare a sentire qualcosa e pur di farlo mi taglierei forte e profondo sul braccio per sentire un dolore più forte di questo malessere.

Ma anche se non avessi un’innata paura del sangue, poi volgo lo sguardo e sento il mondo respirarmi addosso. Se una cosa mi è rimasta, è la pura e vuota speranza. Un concetto sintetico a priori, una percezione basilare, priva di dati empirici, pura e kantiana idea.

Mi è rimasta la vita e in fondo non è poco

 

La colpa

Penso che i tassinari siano, potenzialmente, le persone più introspettive del mondo.

Lo credo fortemente perché, dal momento che uso la macchina quasi più di loro per accolli, lavoro, partite e scopate, mi ritrovo sempre solo al volante, e siccome Radiorock ‘a na certa stucca’ (per chi non è romano: rompe le palle) e Retesport (ed il calcio in generale) ormai la detesto, ho cominciato a parlà da solo mentre guido. Naturalmente da lucido, quindi ciò accade l’80% delle volte che guido, non sempre, di certo non il venerdì.

Parlassero quanto me i tassinari, dopo 10 anni di servizio, diverrebbero psicanalisti, ma purtroppo non sarà mai così, come nelle favole socialiste di telecapodistria. Rimarranno lobbysti, anche senza Alemanno.

Potrebbero comunque diventare dei pazzi, rimanere sotterrati dai loro problemi e dal dolore che ne esce fuori.

O magari potrebbero scordarsi tutto quel che dicono nel giro di un’ora, proprio come faccio io quando parlo da solo al volante e insulto i DJ delle radio romane.

Ma ‘sticazzi dei tassinari, io qualcosina di quel che dico me la ricordo perché, sotto sotto, le mie chiacchere da semaforo e i miei sproloqui Togliattici conservo ancora quella lebenswelt da integrare continuamente con nuove e sgargianti consapevolezze.

L’altro giorno mi mancavano trenta pagine alla fine di un romanzo che stavo leggendo, tornavo a casa e volevo finirlo. Roba leggera, un giallo di Montalbano, ma ho ripensato allo scorso anno, quando impiegai circa dieci mesi per leggere I Fratelli Karamazov.

Un anno ci ho messo. L’ho amato in ogni sua parola, anche in quelle che mi colpivano forte all’altezza della bocca dello stomaco, anche nelle sillabe che mi rigavano il volto come lacrime.

L’ho amato, lo amo, perché in poco più di mille pagine – c’è chi è palloso con molta meno carta, vedi Joyce e vari flussi d’incoscienza – è racchiuso tutto lo scibile umano.

Il fango e il cielo, il luogo comune e l’elevazione spirituale, la boria e la modestia, la colpa e l’espiazione.

Alesa, divino benché terreno; Ivan, acuto e turbato; Dimitri, furente nel suo candore.

Ma questa non è una recensione, bensì una confessione.

Ho confessato le mie colpe a me stesso, mi sono messo a nudo per la prima volta dopo anni, senza giustificarmi, senza flagellarmi. Mi sono visto obiettivamente, come farebbe l’osservatore disinteressato di quel banalmente lungimirante Adam Smith.

Le ho confessate proprio tutte le mie colpe. L’inedia, la pigrizia, l’egoismo, il vizio, l’abbandono, il peccato, la presunzione.

Le colpe vanno espiate, possono essere scaricate sulla natura con un percorso, ma ce n’è una, una sola, che proprio non riesco a levarmela: la colpa degli altri, la colpa di tutti.

Ci si deve sentire colpevoli anche per gli altri, diceva qualcuno dei tre fratelli. E molto spesso occorre pagare anche per gli altri, espiare il dolore che fanno gli altri perché potenzialmente sarebbe quello provocati dalla tua mano, dalla tua parola, dalla tua azione.

Ci si deve sentire colpevoli anche per gli altri perché tutti apparteniamo ad un’unica specie umana, e vi apparteniamo nelle colpe, nei peccati, nella sofferenza e nelle cattive azioni.

Ci si deve sentire colpevoli anche per gli altri, ed esiste un solo modo per espiare la mia colpa: accettare la sofferenza. Io non la rifuggo perché in fondo amo gli altri, voglio essere un tutt’uno con gli altri soprattutto nella sofferenza, nella condivisione e nell’amore.

È solo per togliere l’affanno e non sentirsi più ladri, come direbbe un frate buono.